Innovazione e inclusione nelle politiche per l’integrazione degli immigrati

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27/10/2016 / Comments (0)

Politiche

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Innovazione e inclusione sono un binomio utile anche per ragionare su accoglienza e integrazione degli immigrati in Europa?
Il dibattito pubblico si concentra abitualmente sugli argomenti a favore o contro l’integrazione degli immigrati e dei loro figli. Vi sono ovviamente buone ragioni per insistere sugli obiettivi delle politiche d’integrazione; in questo post, tuttavia, non parlo dei motivi (demografici, economici ed etici) a favore delle politiche di integrazione. Invece di ragionare sul “se” (se integrare, perché integrare, e cosi via), qui vorrei ragionare sul ‘come’: come si integra?

Per farlo riprendo e copio alcuni dei punti finali che ho sviluppato altrove, in un articolo per i Quaderni della Pace e del Dialogo del CEEP

Politiche attive del lavoro e integrazione degli immigrati
Grazie alle ricerche condotte negli ultimi anni iniziamo ad accumulare alcune evidenze sistematiche. Spesso si tratta di valutazioni compiute in un solo Paese, o a scala locale. Ci forniscono tuttavia non poche indicazioni. In Danimarca gli immigrati che hanno partecipato a corsi di alfabetizzazione alla lingua danese, trovano lavoro assai più facilmente di quanti invece non hanno fruito di questi corsi (Clausen 2009)

In generale in tutta Europa tutte le misure che favoriscono l’apprendimento della lingua per gli adulti risultano avere un impatto assai positivo (Hampshire 2013).
In Germania la formazione professionale universalista ha degli effetti assai importanti nell’acquisizione di competenze e nell’accesso al mercato del lavoro, sia per i nativi che per gli immigrati, con solo una piccola differenza fra i due gruppi (Thomsen et al. 2013).
Butsheck e Walter (2014), analizzando 33 indagini valutative locali in 7 nazioni europee mostrano come i sussidi all’imprese private vincolati all’assunzione di immigrati siano di gran lunga la misura più efficace, risultato stabile nel tempo, perché già messo in luce da indagini comparative precedenti.
I programmi di integrazione, e in particolare la formazione professionale e l’orientamento possono avere effetti positivi in termini di incremento della velocità dei processi di integrazione. Essi possono potenziare le competenze professionali, accrescere il capitale sociale e le relazioni degli immigrati, ma rischiano sempre di produrre un effetto di stigmatizzazione per chi vi partecipa laddove si tratti di programmi rivolti esclusivamente a immigrati. Il punto è di estrema importanza.
Tendiamo spontaneamente a riconoscere che i servizi a favore dell’integrazione potenziano il capitale umano delle persone; d’altronde non dobbiamo mai sottovalutare quello che Stiglitz già nel 1975 aveva chiaramente mostrato: le credenziali che questi servizi attribuiscono, forniscono ai datori dei lavoro dei segnali sulla produttività potenziale delle persone che vi partecipano (perseveranza, disponibilità all’aggiornamento, motivazione, capacità di rispettare consegne e scadenze). Al di là delle competenze tecniche acquisite, il fatto stesso di aver frequentato questi corsi e servizi può segnalare delle caratteristiche della persona tali per cui i datori di lavoro possono fidarsi. Non averle può essere penalizzante, e allungare i tempi di assunzione. Tuttavia, se i servizi hanno come target unico dei gruppi particolarmente svantaggiati, possono inviare anche dei segnali negativi e stigmatizzanti. Questi segnali possono avere degli effetti cosi negativi da eliminare gli effetti positivi di acquisizione di competenze professionali e di orientamento con informazioni pertinenti su imprese e settori produttivi.
Nella sua eccellente ricerca comparativa, Irena Kogan (2016) ha messo in luce come in Olanda gli immigrati che partecipano a corsi di formazione, finiscono in una posizione nel mercato del lavoro peggiore di quanti, a parità di condizioni, non hanno frequentato questi corsi. Ben diversa la situazione in Italia, in cui gli immigrati che frequentano corsi di formazione professionale hanno sistematicamente migliori occupazioni e migliore status nel mercato del lavoro. L’effetto stigmatizzante dei servizi di orientamento al lavoro e consulenza è molto forte in Irlanda e, in misura minore, nel Regno Unito, e si associa a una più grande difficoltà a trovare lavoro.
Di conseguenza, emerge l’importanza di politiche che ricorrano a servizi universalisti, di qualità, capaci di veicolare segnali positivi relativi alle persone coinvolte. Servizi non rivolti esclusivamente agli immigrati, né esclusivamente a gruppi svantaggiati; ma che adottano modalità innovative capaci di includere e dare opportunità anche agli immigrati (è un punto cruciale, e che certamente riguarda solo l’integrazione degli immigrati, ma il funzionamento fondamentale delle politiche attive, su cui insisto da diversi anni e per cui mi permetto di rimandare a un testo di ormai 15 anni fa, che mi pare – purtroppo – conservi ancora una certa attualità).
La sfida è grande, quindi: si tratta di innovare profondamente i servizi, per farli diventare più inclusivi in modo da rendere più varia la loro utenza, e soprattutto accrescerne la reputazione affinché inviino segnali positivi che non inficino le competenze acquisite.

Apprendimento istituzionale e modalità aperte di revisione incrementale delle politiche
Questo quadro ci consegna un messaggio importantissimo, per niente generico, e che non va in nessun modo trascurato. Lo sottolineo perché spesso si tende a dare più importante alle grandi decisioni regolative e alle scelte di bilancio, mentre quello che emerge qui è che sono cruciali anche la programmazione e l’implementazione delle scelte fatte (Maestri, Vitale 2016). Ulteriori approfondimenti nella scheda « I nuovi cittadini » nel sito dell’Associazione IN. Innovare per includere. Il punto su cui mi preme insistere è soprattutto relativo al fatto che per innovare i servizi con finalità di inclusione, ed evitare effetti di stigmatizzazione, le politiche pubbliche per l’integrazione degli immigrati richiedono adattamenti, apprendimenti e continui aggiustamenti politici ed organizzativi. Trascurarle, darle per scontate, curarne solo la prima messa in opera può essere molto controproducente (Bilgili et al. 2015). Tenuto conto che negli anni a venire ci sono poche possibilità che le politiche a favore degli immigrati divengano più popolari e meno controverse (Giorgi, Vitale 2016).
Curarne l’implementazione richiede quindi:
– grande attenzione e revisioni costanti dei criteri di selezione e inclusione, per evitare sia gli effetti di stigmatizzazione dei servizi dedicati ai soli immigrati sia gli effetti di scrematura dei servizi che si vorrebbero universalisti ma che di fatto escludono gli immigrati;
– coinvolgimento anche di pedagogisti, esperti di processi apprendimento delle competenze, per non improvvisare e usare al meglio il sapere esperto di cui dispone un territorio, certificare le competenze acquisite e difenderne la qualità curando con attenzione i segnali che si inviano; e quindi:
– capacità di programmare flussi di comunicazione e feedback con gli operatori coinvolti, per avere ritorni relativi alla conoscenza pratica acquisita in situazione, e con le parti sociali (datoriali e sindacali) per aver ritorni sugli effetti di breve e medio periodo; e di conseguenza:
– piattaforme di lavoro aperte in cui raccogliere idee e spingere la critica di associazioni, gruppi e comunità verso indicazioni improntate alla fattibilità; ma anche
– mobilitazione dei gruppi della società civile e associazioni di base per sostenere e giustificare l’importanza di perseguire nella strada dell’integrazione, e al contempo creare occasioni di socialità, contatto, lavoro comune fra immigrati e nativi e legami sociali che vadano al di là delle relazioni strumentali e intreccino una condivisione di bisogni comuni; senza trascurare:
– valutazioni pubbliche e accessibili dei programmi e degli enti coinvolti, che non misurino le attività fatte (valutazione di output) ma i risultati occupazionali raggiunti nel medio periodo (valutazione di outcome: posizione, tipo di contratto, corrispondenza rispetto alle competenze acquisite); e in termini di programmazione:
– valorizzazione delle esperienze di successo ma anche di quelle di insuccesso, con un sistema di incentivi che non favorisca l’opacità, ma sanzioni l’assenza di valutazione e premi le revisioni e gli adattamenti.

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