Il 4 Aprile 2016 a New York presso la sede dell’ONU è stato consegnato il Pritzker Prize – il “Nobel dell’architettura” – all’architetto cileno Alejandro Aravena, curatore della prossima Biennale di Architettura di Venezia, che per l’occasione lancia un’idea rivoluzionaria: disegni e prototipi open-source per il social housing. Quattro dei suoi numerosi progetti sono già disponibili on-line gratuitamente.
Fondatore dell’impresa sociale di architettura ELEMENTAL S.A., già nominato curatore della Biennale di Architettura di Venezia che apre le porte il prossimo 28 Maggio, Alejandro Aravena, 48 anni, ha vinto il Premio Pritzker 2016, il più importante del mondo. È la quarantunesima edizione del premio, finanziato dalla Hyatt Foudation e istituito dalla famiglia Pritzker nel 1979, e tra i predecessori di Aravena ci sono alcuni tra i più grandi protagonisti del dibattito architettonico internazionale. Lui è il più giovane a riceverlo; la prima donna (tra le uniche due) è Zaha Hadid nel 2004; tra gli italiani ci sono Aldo Rossi e Renzo Piano rispettivamente nel 1990 e nel 1998.
Ma l’elemento di vero interesse in questa notizia, non è né la “giovane” età né la provenienza del neo-laureato Pritzker, quanto la motivazione dichiarata dalla Giuria che, dal tradizionale riconoscimento al talento dell’architetto vira in maniera decisa verso il modo di fare l’architetto: «Aravena è in prima linea – scrivono i giurati – tra una nuova generazione di architetti che hanno una consapevolezza multiforme e vitale delle complessità dell’ambiente costruito; ha saputo dimostrare con chiarezza la capacità di coniugare responsabilità, vincoli di spesa, progetto dello spazio abitativo e disegno urbano. In pochi sono riusciti a fare dell’architettura un’impresa brillante e allo stesso tempo efficiente, riuscendo ad incrociare sul progetto le sfide economiche e sociali dei nostri tempi».
Cambiano i tempi, cambia il premio, cambiano i premiati, si aprono nuovi orizzonti culturali. In molti sostengono che il Pritzker di quest’anno è un riconoscimento più per l’uomo-immagine di un presunto nuovo corso dell’architettura che per la qualità (o la bellezza o l’innovazione) delle sue opere. Eppure il lavoro di Aravena nell’ambito dell’housing sociale suscita più di una curiosità.
Per esempio: deve l’avvio della sua brillante carriera a un progetto sperimentale di housing sociale, concepito nel 2003 per la città di Iquique, nel mezzo del deserto cileno. Come realizzare una casa per una intera famiglia con $7.550 per alloggio? Ovvero con risorse che, tradotte in termini di mercato delle costruzioni cileno, sono pari a quelle sufficienti per 30 mq? «Se hai denaro per costruire appena metà della casa, il punto non è come facciamo, ma quale metà facciamo», spiega l’architetto durante una TED Talk.
Nel progetto per le case della Quinta Monroy ad Iquique la risposta dei progettisti è nata così: studiando e disegnando una fetta di “casa giusta”, cioè adeguata alle esigenze di chi deve abitarla, invece di progettare una casa tutta intera, ma rimpicciolita – tanto da essere contenuta nel budget. Perché una casa per una famiglia costretta in 30 mq è forse economica, ma è necessariamente una casa dove “tutto è piccolo”, è una casa sbagliata. E infine la soluzione è quella di scegliere di progettare e costruire proprio quella metà di casa che la famiglia da sola non sarà mai in grado di realizzare (scale, muri portanti, servizi, etc.) e di lasciare il resto all’iniziativa di ogni nucleo, senza contare quanto denaro, energie, tempo ciascuno sarà in grado di spendervi.
Sulla base di questo prototipo di incremental house – una “casa progressiva” – Aravena e i suoi soci di ELEMENTAL hanno sviluppato numerosi progetti, alcuni dei quali – come annunciato nella conferenza stampa in occasione della consegna del Premio Pritzker a New York il 4 Aprile 2016 – sono già disponibili open-source per tutti, anche per quei committenti, pubblici e privati, che ancora pensano che il “buon design” sia un investimento a perdere, nonché per tutti gli architetti, designer e policy maker che hanno necessità di confrontarsi e collaborare. Un’iniziativa d’immagine? Un gesto guascone? Forse un segnale ai naviganti.
Per coglierlo può essere utile ricordare che in un mondo in rapida e profonda trasformazione, tutti progettano – come sostiene Ezio Manzini, uno dei maggiori studiosi di design per la sostenibilità e l’innovazione sociale – «dove “tutti” significa le singole persone, i gruppi, le comunità, le imprese le associazioni, ma anche le istituzioni, le città e intere regioni. E “progettano” significa che tutti questi soggetti individuali e collettivi, volenti o nolenti, sono spinti a mettere in campo delle capacità progettuali per definire e realizzare le loro strategie di vita».
In altre parole sembrerebbe aprirsi la via di una nuova e diversa qualificazione del mestiere di progettare – e non della sua svendita come si affannano a sostenere alcuni – nell’ambito di quello straordinario laboratorio di innovazione sociale che, sempre secondo Manzini, coincide con la stessa società attuale. Un ambito in cui accanto alla diffusione e alla condivisione delle pratiche e delle soluzioni di “tutti”, il ruolo degli esperti diviene primario perché ha la funzione di promuovere e supportare l’innovazione sociale per renderne i risultati più accessibili e diffusi, e per arricchirne e approfondirne il significato. Mantenere viva questa relazione diretta tra la dimensione del progetto diffuso e quella del lavoro dei professionisti, immergendosi nel “laboratorio sociale” della società attuale, sembra però avere senso solo a condizione di saper tutelare il lavoro creativo dalle intermediazioni scivolose, travestite da pratiche collaborative.
In questa direzione va l’iniziativa di condividere open-source alcuni contenuti del proprio lavoro direttamente e gratuitamente, senza passaggi intermedi. È un antidoto culturale potente, un sabotaggio creativo – e sano – a quelle pratiche proprie di alcune piattaforme digitali, per niente innovative e particolarmente odiose, che prima della sharing economy richiamano alla mente una sorta di “caporalato uberizzato” e la sempiterna competizione al massimo ribasso, per di più scalata sulla dimensione estesa del web. Questioni incrementali, direbbero i colleghi cileni.
Di certo l’impatto dei progetti di ELEMENTAL per l’housing sociale è tanto inaspettato, quanto dirompente: «Devo confessare – racconta Aravena in un’intervista rilasciata a dezeen magazine – che all’inizio l’housing sociale era la cosa da fare meno cool che si potesse immaginare […] Fino ad oggi abbiamo costruito 2.500 alloggi […] Ogni singolo progetto ha regolarmente triplicato il suo valore. Questo per le famiglie è la prova che hanno una ricchezza tra le mani, una risorsa (incrementale, n.d.r.) con cui possono andare in banca e chiedere un prestito per avviare una piccola attività. Per questo, in qualche modo, è possibile considerare che l’alloggio progettato in questa prospettiva non è solo un riparo, ma è uno strumento per superare la condizione di povertà».
L’idea che la casa sia diventata uno strumento, un servizio, utile a migliorare la propria condizione di vita non è certo un tema che appartiene solo all’universo sud-americano – con caratteri diversi il tema è centrale anche in Europa e in Italia – eppure è evidente che non si discute solo dell’abc dell’housing sociale, ma anche di come il contenuto della pratica della professione di architetto sia ormai definitivamente e inevitabilmente dentro i processi.
Tra questi quello del progetto per l’housing sociale risulta centrale, non solo nell’esperienza dello stesso Aravena – che gli è valsa il Pritzker – ma soprattutto nella proiezione sociale che l’architettura della casa ha guadagnato in modo innovativo rispetto al passato, proprio attraverso le pratiche di cui diviene parte. Se da una parte è facile identificare l’architettura come una pratica collettiva “per definizione”, dall’altra bisogna fare chiarezza su che cosa sia oggi quella “progettazione partecipata” che gli architetti italiani, a partire per esempio da Giancarlo De Carlo, hanno cominciato a esplorare fin dagli anni ’70.
Il lavoro e le pratiche implementate nei progetti di ELEMENTAL, l’infaticabile attività di comunicazione del suo super-mediatico direttore, raccontano di una storia di partecipazione attiva degli architetti alla definizione della forma della società in cui viviamo, e viceversa, di una necessità che la collaborazione tra “tutti” informi ogni livello del progetto: «Quello che proviamo a fare, chiedendo alle persone di partecipare – prosegue Aravena nell’intervista – è di rappresentare la questione, non quale sia la risposta. Non c’è niente di peggio che una risposta giusta alla domanda sbagliata».
È una storia di “partecipazione” diversa da quella che abbiamo conosciuto e in cui, mi par di vedere, che i protagonisti sono già tutti quei progettisti, architetti e designer, che pur avendo coltivato un interesse e una sensibilità nei confronti del ruolo sociale del progetto, rispetto a quarant’anni fa sono meno affezionati all’Architettura e al Design e molto più interessati a lavorare, in bilico, tra il dar forma alle cose e l’esserne parte. Chiamiamola collaborazione.
Chiara Rizzica
- Questo articolo è stato pubblicato il 28 aprile 2016 su gli Stati Generali