Speaking truth to power”. Con queste parole Aaron Wildavsky, uno dei più grandi politologi del ‘900, intitolava la sua opera fondamentale sull’analisi delle politiche pubbliche (Wildavsky, A., Speaking truth to power. The art and craft of policy analysis, 1979).
Dire la verità al potere è infatti la sintesi della missione di chi fa ricerca scientifica sulle policy. Una missione che certo non significa indirizzare le scelte del decisore pubblico, sostituendo la legittimazione scientifica a una legittimazione politica che solo processi democratici di elezione e di controllo dal basso possono garantire. Ma una missione che richiede sia sempre preservata la libertà di poter dire al decisore ciò che le sue politiche producono, come le sue politiche riescono (o non riescono) a interpretare e a governare i fenomeni emergenti nella società, quale prezzo i cittadini rischiano di pagare per seguire l’ordine imposto dalle sue politiche o quando le sue politiche finiscono per ottenere effetti opposti a quelli auspicati.
Dove questa libertà di ricerca sulle politiche non è rispettata, ogni regime democratico si indebolisce e, in ultima analisi, diventa più incapace di fornire risposte alle istanze e ai nodi che dentro alle società emergono. Soprattutto in un’epoca nella quale il grado di mutamento, di complessità e di interdipendenza delle dinamiche sociali ed economiche non consente di riproporre formule di governo protezionistiche – o, usando una formula in auge, “sovraniste”, se non pagando un prezzo altissimo di esclusione e di oppressione dello “straniero” – chi governa ha bisogno come l’aria di avere qualcuno che gli dica la verità, qualcuno che disturbi il manovratore, indicandogli se e quando la nave sta andando a schiantarsi e a naufragare.
Dire la verità al potere significa dirla non solo al potere politico, bensì a tutti i poteri culturali ed economici che vogliano continuare a vivere in una società vitale e inclusiva. Significa, anche, dire la verità ad un’opinione pubblica sempre più esposta alle suggestioni della post-verità.
Credere ad una ricerca sulle policy come strumento di qualità della democrazia implica dunque il lasciare la ricerca libera.
Questa libertà perde di sostanza se vengono meno le condizioni materiali per svolgerla. Per esempio: se non vengano sostenuti gli sforzi di coloro che fanno ricerca come mestiere, oppure se non si impedisce che essi siano obbligati a lasciare il proprio paese, come tanti giovani ricercatori hanno dovuto fare in questi anni. Come ha fatto anche Giulio Regeni.